Se la fuga dei giovani talenti è un fenomeno ancora molto esteso, uno studio di Transearch di quest’anno ci rivela che anche i nostri manager che lavorano all’estero hanno poca voglia di tornare in Italia. Solo la nostalgia o ragioni familiari indurrebbe circa il 6% dei manager a valutare l’eventualità di un rientro, mentre il restante 94% non considererebbe affatto questa possibilità.
Non hanno tutti i torti: i manager con velleità di un ruolo prestigioso vedono sfumare questa possibilità in un paese dove molte aziende hanno ancora una mentalità padronale e i vertici sono riservati a pochi eletti.
Inoltre all’estero hanno assaporato una migliore qualità di vita e a nulla valgono le classiche leve motivazionali (carriera, soldi, potere, ecc.), qualora vi fossero, a convincerli a tornare nel “belpaese”.
Una nuova emigrazione.
Spesso i manager “emigrano” con la famiglia e oggi accettare un incarico all’estero può garantire migliori prospettive per sé e per i figli, con benefit e servizi evoluti.
Alcuni professionisti si fanno assumere direttamente da aziende estere mentre altri seguono il percorso di internazionalizzazione delle aziende italiane, utilizzata spesso come ultima chance per rimanere competitivi in un mercato sempre più globale.
Sembra quasi di essere tornati, sia pure con modi differenti, all’emigrazione degli italiani di inizio secolo in America, una delle destinazioni più richieste. Sia gli USA e il Canada sia il Sud America, esclusa l’Argentina, sembrano allettare i nostri professionisti, non più attratti da Cina e India, oggi in fase di rallentamento.
Un circolo vizioso.
Al di là delle singole scelte personali, il rientro dei nostri talenti dopo una importante esperienza internazionale potrebbe dare un contributo importante alla crescita del nostro paese. Ma per incentivare il loro ritorno occorre creare un sistema paese all’altezza delle loro aspettative. Un circolo vizioso che sarà importante spezzare per tornare davvero competitivi.